Ciò
che segue è parte prologo del secondo libro del ciclo I Registri
dell'Arena, Il Seme dell'Arcobaleno.
(Vietata
la riproduzione. Proprietà intellettuale di Mario Micolucci)
Estratto
del Prologo.
Il
Duca Guardiano Atrehiudon stazionava ritto all'argine della terrazza,
priva di parapetto, posta sulla cima della Torre d'Ossidiana. Gli
abiti scuri, ricchi nei materiali e austeri nelle forme, aderivano
alla sua sagoma snella conferendogli un aspetto severo. I suoi occhi,
lucidi e completamente neri, scrutavano Azalost in fiamme e lo
facevano senza alcuna espressione. Nessuna emozione trapelava da
essi, eppure, ciò che stava contemplando destava in lui pensieri
assai angosciosi.
Il
Principe delle Tenebre, il Sommo Paradharta Celahiathon, il primo
della sua stirpe, gli aveva affidato Azalost millenni addietro e, per
tutto quel tempo, aveva vegliato su di essa e sui segreti che
nascondeva. Una forza maligna e abominevole, una forza mossa da
conoscenze arcane considerate perdute, l'aveva attaccata
sbaragliandone le difese. La sola Torre d'Ebano si stagliava quale
ultimo baluardo a protezione di ciò che non doveva essere portato
alla luce.
Azalost
era una città che si sviluppava sospesa all'interno di un immenso
baratro sotterraneo, un baratro il cui fondo si perdeva nelle più
abissali viscere di Xantis. Le fondamenta su cui si ergeva non erano
state costruite dal suo popolo, ma risalivano a tempi ancora più
remoti, precedenti all'avvento della sua stirpe: le titaniche catene
che le sorreggevano erano state evocate dagli elfi delle profondità,
i toccati da Petra, durante la Seconda Guerra dei Quattro. Allora, il
flusso del magicka era ancora impetuoso e il potere degli elementi,
traboccante di energia.
Se
le fondamenta non erano opera della sua razza, tutto il resto lo era
e ogni elemento architettonico era lì a testimoniarlo. Gli elfi
oscuri avevano eretto guglie aguzze e severe, scalinate ripide ed
edifici proiettati verso l'alto in un'impeccabile opera d'arte di
gusto austero, ma elegante. La cittadella era un agglomerato dalle
forme intimidatorie, tuttavia slanciate, a testimoniare l'elevata
spiritualità dei suoi artefici. Le lucide pietre di granito scuro, i
marmi neri e le lastre perfettamente sagomate di ossidiana erano un
tributo al dio di coloro che abitavano quel posto, Buion l'Ermetico.
Erano
secoli che non subivano attacchi, l'esistenza stessa di quella città
si era persa nel mito: tale oblio era risultato il più efficace tra
gli accorgimenti difensivi. In tempi antichi, le fortificazioni
avevano saputo resistere alle orde di goblin coadiuvate dalla prole
del Verme Primordiale e dai troll di caverna. Persino i nani avevano
fallito nel fare loro quella meraviglia sotterranea.
Eppure,
Azalost era in fiamme.
Le
orde di non morti e di giganteschi mostri riesumati non avrebbero
potuto fare breccia, se a guidarle non fosse stata una creatura la
cui stessa esistenza era stata bandita dalla Contesa per volontà
univoca dei seguaci di tutti gli dei. Quella creatura era un liche e
nessuno avrebbe potuto immaginare che una simile minaccia potesse
nuovamente riemergere dal passato più atroce: lo stesso Atrehiudon
stentava a credere a ciò che si era palesato al suo sguardo. A
quanto pareva, qualcuno era riuscito ad accedere a conoscenze
proibite e se questo qualcuno aveva avuto l'abilità di metterle in
pratica al punto di autoriesumarsi dalla morte tramutandosi in
quell'abominio, assai probabilmente sapeva come ridestare chi quelle
arcane conoscenze aveva diffuso contravvenendo ai dettami stessi del
suo Creatore. Il liche che li stava attaccando era ben poca cosa, se
paragonato a colui di cui ambiva a essere l'araldo e il precursore:
millenni addietro, era stata necessaria l'azione congiunta di tutte
potenze di Xantis per fermarlo e annichilirlo. Nel timore del suo
ritorno, il suo nome e le sue imprese erano stati cancellati dalla
storia stessa, i suoi insegnamenti banditi e la sua essenza immortale
scissa per essere nascosta e custodita negli anfratti più segreti
del Mondo sotto l'egida dei più abili maestri del celare, gli adepti
di Buion.
Poche
ore prima, un'orda sterminata di creature abominevoli si era
addossata agli argini della voragine, apparentemente impossibilitata
a raggiungere la cittadella sospesa. Era una marmaglia composta di
non morti di varia natura. Vi erano numerosi cadaveri ambulanti,
probabilmente rimediati nei cimiteri della regione o mietendo vite
lungo la via verso l'accesso a quelle grotte profonde celate ai più
dall'oscurità più impenetrabile e dalla notte dell'oblio. Tuttavia,
il grosso delle truppe era costituito da resti mummificati e
scheletri, spoglie abbandonate dalla vita in epoche remote e
appartenute a differenti razze umanoidi e a bestie di varie natura e
dimensioni. Molti anni addietro e diverse leghe più in alto, su,
nella tundra in superficie, era stata combattuta una colossale
battaglia per il dominio sulle regioni nord-occindentali di Auriah:
forse lo scontro più sanguinoso tra quelli che avevano consentito la
nascita e l'affermazione dell'Impero umano di Arsantis. Lì, in
quella piana gelida e maledetta dalla guerra, il potente negromante
aveva trovato parecchio materiale per armare il suo esercito immondo.
Anche il drago scheletrico che montava doveva essere un cimelio di
quelle lande. Le ossa di quella mastodontica creatura ospitavano le
anime straziate di centinaia di spiriti erranti che, per secoli,
avevano infestato il campo di battaglia perpetrando nella loro atroce
persistenza gli orrori di una morte violenta incontrata nell'odio più
totalizzante. La loro presenza si manifestava attraverso un flusso di
malsane esalazioni verdognole che vorticavano intorno alla
cavalcatura in una cacofonia di voci oscene e che avvolgevano in
un'aura algida e appestante anche la riprovevole sagoma del suo
cavaliere, un'aura maligna capace di sfaldare e ridurre in cenere
qualsiasi cosa osasse penetrarla. Al suo fianco, volteggiava una
macabra scorta costituita da una mezza dozzina di viverne
scarnificate con in groppa terrificanti guerrieri spettrali dalle
inquietanti armature ossidate a dalle lunghe lance rugginose.
Tra
gli elfi oscuri suoi sudditi, vi erano anche una dozzina maghi runici
e un piromastro che, dall'alto dei bastioni, avevano preso a mondare
con il potere delle fiamme le schiere di cadaveri che si offrivano
come facile bersaglio. Purtroppo, il loro contributo durò per molto
poco. Il liche, infatti, prese a salmodiare ciclicamente un macabro
ritornello fatto di suoni stridenti e parole immonde e ogni volta che
terminava di formularlo puntava l'indice verso un incantatore e
quello, semplicemente, trapassava. Il suo spirito urlante, orfano del
corpo, era costretto ad albergare per sempre nell'orrifica aura del
suo sicario. Erano pochi gli esseri viventi in grado di sottrarsi a
quel potente sortilegio i cui unico limite era quello che richiedesse
del tempo per essere formulato per poi colpire un unico bersaglio:
così, l'abominevole creatura lo riservava ai soli avversari più
fastidiosi.
I
pochi maghi di cui disponeva erano troppo importanti in quanto
devastanti contro le orde di non morti, così Atrehiudon aveva
ordinato la carica in forze della cavalleria volante con lo scopo di
tenere impegnato il liche: ciò avrebbe donato loro qualche minuto in
più di operatività. La cavalleria volante contava ben cento unità
scelte tra gli elfi oscuri più agili i quali montavano i pipidonti,
simili a pipistrelli, ma enormi. Bastarono i sei cavalieri spettrali
ad annientarli: lo scontro fu rapido e non fu neanche utile a
interrompere la nenia mortale. Le macabre armature spettrali non
erano facili da abbattere: così, l'intero corpo, vanto dell'esercito
elfico, fu spazzato via portandosi dietro, nell'oblio, un solo
avversario. In realtà, il capitano era riuscito a trovare un varco
tra le traiettorie delle viverne ed a impattare il loro Signore
infilzandolo con una micidiale lama dell'oblio. Immediatamente dopo,
però, invecchiò in un lampo, decompose e si ridusse in cenere a
causa del contatto troppo ravvicinato la creatura. Un gesto eroico
che, forse, aveva aperto una piccola crepa nelle impenetrabili difese
di quel potente abominio. A compierlo era stata Alahitrin, l'amata
figlia del Duca Guardiano.
La
forza più portentosa dell'esercito degli elfi oscuri era costituita
dagli Adepti dell'Ordine dell'Oblio, i sacerdoti di Buion, di cui
Atrehiudon in qualità di guida spirituale, oltre che temporale, era
il Capo. I loro prodigi, in grado di celare interi plotoni, privare
dei sensi o costringere la mente alla dimenticanza erano, purtroppo,
inutili contro quegli avversari poiché essi percepivano attraverso
un'unica mente e seguivano un'unica volontà: quelle del liche e
nessuno dei sacerdoti, se non, forse, il solo Atrehiudon era in grado
di attaccarlo direttamente. Così, erano stati mandati nell'Antro
Buio a officiare il lungo Rituale del Risveglio: mai, era stato
necessario arrivare a tanto, ma se per secoli avevano accumulato
scorte di preziosissime ametiste nere, era stato proprio per far
fronte a una simile evenienza.
Una
volta liberatosi del fastidio dei maghi, il liche aveva fatto
stridere la sua voce raschiante a intonare una cantilena immonda e,
subito dopo, una valanga composta da miliardi di cadaveri di lemming,
animati da un'unica volontà fece irruzione sullo scenario e si cinse
come una guaina intorno ad alcune delle catene che sorreggevano
Azalost. Poi, dallo scettro che brandiva, scaturirono flatulenti
getti brumosi che fecero cementare carne e ossa di quei corpicini a
formare solidi ponti, praticabili, persino, dai cadaveri ambulanti nonostante il loro incedere goffo. Il varco per la cittadella era stato
aperto.
I
suoi soldati avevano lottato con grande ardore: di certo, ciascuno di
loro valeva per decine di quegli esseri immondi. Il problema
principale era che pochi avessero armi incantate adatte ad
annichilire la non morte, così erano costretti letteralmente a farli
a pezzi per impedir loro di continuare a muoversi. Perlomeno, la loro
natura di elfi li rendeva immuni al loro morso appestante e anche le
nubi tossiche evocate dal liche risultavano più debilitanti che
letali. Ad ogni modo, nessun cadavere poteva sottrarsi al potere di
quell'arcana creatura e, quindi, i caduti erano destinati a
rimpinguare le già sterminate fila dei loro carnefici. Se le armi
convenzionali non erano efficaci contro gli elementi di quella
marmaglia, le fiamme roventi lo erano. Così, gli abili tiratori del
suo schieramento avevano preso a bersagliarli con frecce incendiarie
di ogni tipo: alchemiche, incantate o a base di polvere pirica.
L'impatto di una tale gragnola sulla battaglia si era rivelato
davvero efficace, tant'è, che aveva consentito alla fanteria di
arginare comodamente l'avanzata degli avversari. Purtroppo, le
munizioni erano limitate, mentre l'esercito invasore sembrava non
finire mai: inevitabilmente, esse erano terminate. Le linee difensive, private del supporto balistico, non poterono far altro che arretrare passo dopo passo, posizione dopo posizione.
Ormai,
la città era perduta e i pochi superstiti resistevano stoicamente
nei pressi del basamento della Torre d'Ossidiana. Non dovevano
cedere, altrimenti, il loro sacrificio sarebbe stato vano: dovevano
resistere per il tempo necessario al completamento del Rituale del
Risveglio di colui avrebbe potuto ribaltare l'esito di quell'impari
battaglia, Azal il Nero.
…
Fine
estratto del Prologo de' Il Seme dell'Arcobaleno.
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